È possibile definire la morte? In base a cosa? Cos’è la morte clinica? Cosa differenzia la visione occidentale della morte dalla tanatologia tibetana? Questi temi, insieme a molti altri, vengono affrontati nell’ultimo libro di Daniela Muggia, intitolato Di morte non si muore. Un viaggio tra scienza e tradizione per esplorare in profondità il tema della morte.




Daniela Muggia, tanatologa e studiosa della tradizione tibetana, ha pubblicato il suo ultimo libro “Di morte non si muore”, edito da Amrita Edizioni, uscito nelle librerie lo scorso 23 giugno. Un titolo in parte provocatorio per cercare di trattare e cogliere il complesso processo della morte, descritto da molte tradizioni tanatologiche del mondo, prima fra tutte quella tibetana in cui l’autrice è specializzata. Ne ha parlato durante la puntata di Filo Diretto con l’autore in compagnia di Daniela Bartolini e Daniel Tarozzi.

Daniela si è perfezionata in tanatologia all’Università Federico II di Napoli e, tra le tante cose, ha messo a punto E.C.E.L. (Empathic Care of the End of Life), un metodo di accompagnamento empatico della fine della vita e del lutto, eticamente orientato alla compassione. 

Per spiegare meglio come funziona E.C.E.L., l’autrice prende a prestito l’immagine di un albero con tre forti radici, una occidentale con tutto ciò che le neuroscienze, la fisica quantistica e la neurocardiologia hanno scoperto sul contenuto della radice orientale, la vastissima tanatologia tibetana. «Pensiamo a un popolo che per circa mille anni ha potuto speculare sulla vita e sulla morte, compiendo numerosissime indagini per qualcosa che ritengono come una straordinaria occasione». La terza radice è l’esperienza sviluppata, in 30 anni di studio e 25 di esperienza, affiancando le persone e i familiari in difficoltà, accompagnandoli lungo il cammino della malattia, perdita e morte, per ritrovare il senso della vita, la serenità e un profondo contatto con se stessi. 

L’associazione Tonglen - un'organizzazione di volontariato nata in Piemonte nel 2001, apartitica e laica, di cui fanno parte persone di ogni provenienza culturale e/o religiosa che si riconoscono una sensibilità comune di fronte alla sofferenza fisica, psicologica, sociale e spirituale che si manifesta alla fine della vita e nella malattia -, di cui Daniela Muggia è il presidente, studia, pratica e insegna l’accompagnamento empatico della fine della vita con un metodo ispirato alle moderne scoperte delle neuroscienze e della fisica quantistica, ma anche e soprattutto con i più antichi insegnamenti del buddhismo tibetano sulla morte e il morire. 

In Italia il numero degli accompagnatori è cresciuto moltissimo in questi due anni, grazie anche al Corso di accompagnamento empatico della fine della vita e del lutto secondo il metodo E.C.E.L. dell’Università Popolare in Corde Scientia. «L’idea è quella di creare una nuova professione. In questi ultimi due anni molta gente è morta da sola in maniera anche strazianti, ci siamo resi conto che se gli operatori ECEL fossero diventati un’associazione di categoria e avessero avuto l’approvazione del ministero della salute ad accedere agli ospedali, questo non sarebbe accaduto. Avremmo trovato un modo. In questi ultimi due anni tutti noi accompagnatori volontari abbiamo creato un gruppo che ha aiutato moltissime persone disperate. Un luogo non dove lamentarsi, ma condividere tutto ciò che può essere di aiuto. Quante perdite non elaborate abbiamo dentro? Sono tante senza neanche saperlo. Il cervello le tratta tutte alla stessa maniera, ma arriva un momento in cui un lutto di qualsiasi tipo diventa insuperabile. Il problema è capire cosa c’è dietro, con cosa sta risuonando. Noi lavoriamo anche su questo aspetto e lo facciamo utilizzando le pratiche tibetane che abbiamo imparato dai maestri tibetani e dalla loro straordinaria tanatologia. L’applicazione del metodo E.C.E.L. ha riscontrato degli effetti notevoli e benefici su moltissime persone, anche sui bambini affetti da ADHD, sindrome da iperattività e deficit di attenzione, che hanno affrontato un lutto» racconta Daniela. 

Ma cos’è davvero la morte? Cosa permette di definirla?

«Tutti muoiono, ma nessuno è morto», recita un antico proverbio tibetano. Mentre l’occidente si affida alla concezione di “morte clinica” -  per cui la morte avviene quando elettrocardiogramma ed elettroencefalogramma sono due linee piatte - la tradizione tibetana e molte tradizioni tanatologiche planetarie concepiscono il fenomeno in modo molto più complesso. Secondo queste tradizioni, il passaggio dalla vita alla morte non è un interruttore che passa da “acceso” a “spento” appena il cuore smette di battere e un esame degli strati più superficiali del cervello mostra che non vi è più attività, ma un lunghissimo e ricco processo di trasformazione. 

Daniela Muggia ha studiato per 37 anni sotto la guida di Sogyal Rinpoche e di molti altri mentori contemplativi tibetani il tema della morte. Il suo libro è un viaggio che ci permette di esplorare la tradizione e la scienza. Un approccio che ci conduce a considerare segni clinici come un EEG piatto non come morte cerebrale, ma come assenza di un certo tipo di attività cerebrale, e a riflettere sulla coscienza come fenomeno non locale e non come un epifenomeno del cervello.

Sono molte, infatti, le ricerche che vanno in questa direzione. La ricerca neuroscientifica si è inizialmente dedicata soprattutto allo studio dei processi neurali che intervengono nel breve tempo che circonda la morte clinica, ma oggi è in grado di valutare empiricamente il processo esteso del morire e, più specificamente, di indagare sulla possibilità che sussistano attività cerebrali dopo la cessazione della funzione cardiaca e respiratoria

Le antiche tradizioni mistiche, e in particolare quella tibetana, supportano casi che portano a considerare la presenza di una coscienza soggettiva post mortem, che la coscienza non sia soggetta alla morte, e a valutare gli eventuali fattori o comportamenti (come la meditazione) che possano favorire il persistere di un’attività cerebrale, dopo il decesso collegabile a una tale consapevolezza soggettiva. 

Daniela si sofferma in particolare sul fenomeno del "tukdam" che ha studiato per quattro anni. Tuk (o Thuk) significa “mente-cuore”, o “mente di buddha”, la “mente del vittorioso” che ha sconfitto le distorsioni percettive; e dam significa “(essere) uno con”, indicando uno stato meditativo di unione. Il "tukdam" si verifica nei meditanti di scuola tibetana, buddhisti e bön, laici e non, come conseguenza (e non come scopo) di un profondo addestramento meditativo. 

Lo stato di tukdam si verifica quando il corpo del “defunto”, dopo la morte clinica accertata, mostra una serie di segni, tra cui assenza di decomposizione dopo la morte, che possono permanere per una settimana o anche un mese persino nella stagione calda. In India c’è chi è rimasto in questo stato meditativo post mortem anche per un mese. La meditazione si prolunga durante il processo di morte e anche dopo e la coscienza resta nel corpo. Nel libro, vengono approfonditi 13 casi dichiarati di "tukdam", esempi molto recenti e con tantissimi testimoni ad avvalorarne l'autenticità. Il "tukdam" è considerato un segno di elevata realizzazione spirituale e quindi di una vita vissuta secondo i princìpi di un’etica compassionevole. Colui che lo esperisce sarà in grado di portare grandi benefici al mondo nella sua prossima incarnazione e assisterlo in questo compito meditativo è un modo per creare con lui un legame karmico favorevole per la prossima vita. 

“Di morte non si muore” ci offre una profonda riflessione sul fatto che la morte sia un processo e non un istante nel tempo, e su quale compito abbia l’intera società nel garantire olisticamente il benessere fisico, mentale e spirituale - non necessariamente inteso nel senso di “religioso” - di chi sta attraversando questo processo.

Comments (0)

Argomenti

Autori

Prodotto aggiunto alla Lista desideri