Due psicoterapeuti milanesi, Francesco e Francesca, dallo scorso dicembre sono in viaggio in centro e sud America alla scoperta delle culture native e ancestrali, conoscitori di saperi legati all’uso delle piante per preservare la salute dell’uomo. A guidarli anche il libro di Tania Re edito da Amrita Edizioni, “Stupefacenti e proibite: le piante maestre”.




Francesco e Francesca, due psicoterapeuti milanesi consci del “male di vivere” che caratterizza il mondo occidentale, hanno deciso di mettersi in viaggio per incontrare un approccio di cura alla mente e all’anima più spirituale. Li contatto telefonicamente e cominciano a raccontarmi di questo “cammino” iniziato lo scorso dicembre alla volta del centro e sud America. A guidarli anche il libro di Tania Re edito da Amrita Edizioni, “Stupefacenti e proibite. La via delle piante maestre”, un racconto sull’etnomedicina basato sull’uso delle piante per preservare la salute dell’uomo. Come scrive l’autrice «l’Amazzonia è la più grande farmacia a cielo aperto che il genere umano possieda e sempre di più il progresso ne sta mettendo a repentaglio il patrimonio. Calpestare un metro quadrato di terreno significa schiacciare contemporaneamente un centinaio di specie vegetali diverse che potrebbero essere selezionate e utilizzate». 

In Amazzonia a fare la differenza non sono solo le piante, ma anche l'approccio con cui si 'legge' la malattia, qualunque essa sia. Francesco e Francesca, nonostante la giovane età, da diversi anni hanno uno studio privato a Milano. Lui segue l’approccio cognitivo-comportamentale, lei quello della terapia breve strategica. Entrambi stanno approfondendo anche l’EMDR, ma hanno deciso di integrare la loro formazione accademica andando a conoscere personalmente la cultura del centro e del sud America.

Già dai primi incontri hanno avuto modo di notare le differenze sostanziali rispetto alla cultura da cui provengono. «Qui c’è connessione spirituale con qualcosa di superiore che noi in occidente abbiamo perso. Conservano ancora questa capacità di riuscire a connettersi alle persone e al contesto con amorevolezza e gratitudine. Un approccio molto difficile da spiegare in Italia dove tutto è basato sulla materia, sullo scientificismo. Non sarà semplice, ma al nostro ritorno vogliamo proporre un’interazione tra queste due visioni» raccontano.

Per queste culture un malessere psicologico o dell’anima, così come quello fisico, è qualcosa che va interpretato, ascoltato come messaggio importante per poter guarire dalla malattia. Il rapporto con la vita e con la morte viene vissuto diversamente. Secondo i due viaggiatori in occidente in molti soffrono di depressione e ansia perché si vive spesso una vita basata sulla paura, sul dover tenere tutto sotto controllo focalizzandosi quindi sulla sopravvivenza, perdendo la capacità di vivere. L’esatto opposto rispetto a come si vive nei luoghi che stanno imparando a conoscere. Anche la morte, che per la nostra cultura resta ancora un grosso tabù, qui viene vissuta come un momento di profondo ascolto e gratitudine.

Purtroppo però, soprattutto nelle grandi città, le tradizioni ancestrali legate alla natura cominciano a perdersi anche da quelle parti. Il “progresso”, il materialismo, l’industrializzazione, il benessere stanno contribuendo ad un distacco già in atto, ma non ancora evidente come da noi, che insieme ad uno stile di vita spesso malsano alterano il modo di sentire e conoscere. Resta per fortuna ancora forte quella parte che, invece, è ben salda ad un sapere così antico e veritiero. 

In Occidente siamo già oltre. Si comincia ad avvertire la difficoltà di un certo vivere e non a caso da diversi anni sono sempre più diffuse ricerche e studi che richiamano terapie e approcci che Francesco e Francesca stanno toccando con mano. «Qui non sono ancora arrivati alla “crisi dell’uomo”. Noi rappresentiamo la società che ha tutto, ma non sta comunque bene. Il nostro è un mondo separato, dove ogni cosa viene vista singolarmente. Abbiamo confuso il comfort con il benessere. Inoltre deleghiamo ad altri la cura della nostra persona. Qui, invece, il paziente deve fare la sua parte, deve comprendere il significato del sintomo e della malattia durante il percorso e credere nei benefici delle piante. Anche il male fisico è interpretato in chiave psicologica. I curanderi tengono molto all’aspetto relazionale, al dialogo». 

Nonostante le ricerche e gli studi scientifici di tutto il mondo convalidino l’efficacia delle piante, soprattutto per la cura di alcune patologie psicologiche, in Italia si fa fatica ad accettarle nonostante la società civile sia ben disposta a certi temi. I due viaggiatori, infatti, cercheranno di promuoverne i benefici per contribuire anche ad un eventuale cambiamento legislativo in merito. 

Ma è necessario rivedere anche alcuni degli aspetti alla base della nostra esistenza. In città come Milano si vive male nonostante gli stipendi siano i più alti di tutta la penisola. Una cultura che richiede di essere sempre super performanti, efficienti ed efficaci, accelerando emozioni, azioni e pensieri, provoca una forte sofferenza perché non siamo fatti per condurre una vita con questi ritmi. 

«Qui stiamo riscontrando una lentezza, una vita che segue i ritmi dell’essere umano. A Milano noi e i nostri colleghi veniamo principalmente contattati dai pazienti per la cosiddetta “depressione lavorativa”. Il lavoro viene anteposto a tutto. Una credenza talmente radicata che rende difficile anche la sola idea di sovvertirla, generando ansie e paure. Inoltre manca una visione di insieme e di interazione. In un contesto del genere, quando si sta male si pensa subito di non essere all’altezza, in modo colpevolizzante e giudicante, senza pensare che forse è il contesto in cui viviamo ad essere malato. Qui abbiamo riscontrato l’opposto, sin da bambini si impara cosa significa essere connessi e questo approccio aiuta ad avere una visione spirituale perché sono più abituati a pensare all’invisibile, a ciò che non è misurabile» commentano i due viaggiatori.

Le loro riflessioni coincidono con quanto scritto da Tania Re nel libro. “Oggi è in grave pericolo tanto la biodiversità dei sistemi naturali quanto quella dei sistemi culturali, di fronte all’avanzata di un’omologazione che inghiotte capacità e saperi in nome di un “progresso” che dovrebbe renderci tutti più felici! …[ ] la risposta che mi diede un maestro curandero nella foresta amazzonica, quando (un po’ provocatoriamente, credo) gli chiesi perché curasse tutti, persino gli uomini che distruggevano la sua foresta millenaria, disboscandola in nome di un’avida e individualistica logica del profitto: «Perché le piante mi hanno chiesto di aiutare l’umanità, e l’umanità è Una»”. 

Francesco e Francesca mi lasciano con una frase di Eduardo Galeano

del film "Puerto escondido"  che li ha molto colpiti: «Che danno ci farà un sistema che ci stordisce di bisogni artificiali per farci dimenticare i bisogni reali? Come si possono misurare le mutilazioni dell'anima umana?».

E a voi è mai capitato di farvi questa domanda?



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