Con il tempo, Christine Longaker ha ripensato alla morte della nonna, non con senso di colpa per non esserle stata abbastanza vicino, ma con grande e inaspettata serenità, compresa proprio grazie agli insegnamenti del buddhismo tibetano, appresi da Sogyal Rinpoche. «Se ricordiamo a un morente il suo rifugio più sicuro, la fonte profonda della sua devozione e della sua fiducia – proprio come aveva fatto quel giovane sacerdote recitando il rosario per mia nonna – possiamo aiutarlo a trascendere la sofferenza della morte, ponendolo sulla via della liberazione».
Allora perché temiamo profondamente la morte? «Per molti, affrontare la morte significa lottare contro una forza impietosa che vuole derubarli della vita e di tutto ciò che amano - scrive Longaker - La guarigione e il proseguimento della vita sono visti perciò come una vittoria in battaglia, e accettare la morte viene considerato alla pari di una resa, ammettendo la sconfitta e abbandonandosi alla disperazione. Sebbene sia certamente sensato fare tutto il possibile per guarire, se continuiamo a evitare anche solo il pensiero della morte, o a vederla come un “nemico”, quando ci troveremo sulla sua soglia proveremo una tensione e una paura ancora maggiori, perché non saremo stati capaci di prepararci all’inevitabile».
Non a caso in numerose rappresentazione e xilografie del Medioevo, la morte viene raffigurata mentre danza con i vivi, a riprova del fatto che «è parte della realtà della vita, è la nostra costante compagna; che ne siamo consapevoli o meno, attraversiamo la vita danzando tra le braccia della morte». Molto più minacciosa, invece, è la rappresentazione che ne viene fatta nel diciannovesimo secolo, quando la morte veniva ritratta armata di falce, pronta a mietere sempre nuove vittime con spietata violenza.
Recentemente, fa notare l’autrice, è tornata finalmente alla ribalta nella nostra cultura «un’antica immagine della morte: quella che la dipinge come qualcosa di naturale, una parte di quel Tutto che è la vita. Morire non è il risultato di un fallimento personale né un problema legato a una psiche malsana. La morte è universale: arriverà per tutti. E potrebbe succedere in qualsiasi momento, non solo agli anziani o a chi è stata diagnosticata una malattia mortale».
La morte, spiega l’autrice, non va fuggita, ma in qualche modo attesa e accolta come un momento di passaggio da cui nessuno può sottrarsi. Non parlarne o allontanare anche solo il pensiero, non fa altro che rendere più doloroso il momento della fine, che è di fatto una nuova alba, come recita il titolo del libro di Christine Longaker. «Tutta la sofferenza, i cambiamenti e le perdite che sperimentiamo nella vita ci offrono infinite occasioni di “fare pratica del morire”, addestrandoci a lasciar andare la nostra abitudine di aggrapparci alle cose, (...) Non esiste dunque momento della vita che non sia di preparazione alla morte».
La morte è di fatto la continuazione di quanto siamo oggi: è il momento in cui raccoglieremo quanto seminato. Ecco perché prendersi cura della parte più profonda di noi stessi, può aiutarci ad affrontare meglio la fine e scorgere la profonda speranza che è racchiusa anche nella morte. Praticare la meditazione, in particolare, ci permette di «sperimentare un rilassamento e un’apertura profondi, una gratitudine sconfinata, e una compassione gioiosa e universale», che non ci abbandoneranno mai, neppure quando crediamo che sia arrivata la fine di tutto.
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